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Raccontare la Shoah

27 Gen

Visitare e descrivere Auschwitz e Birkenau è  come ricevere  un colpo al cuore.

Si parte credendosi preparati all’orrore che ci aspetta, forti di anni di conoscenze letterarie e di visioni di film e documentari storici sull’argomento. Ma appena varchi quei cancelli, entri nelle baracche, accedi ad una dimensione diversa.

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I forni crematori, le camere a gas, i fili spinati, i muri delle fucilazione, gli angoli della tortura, i laboratori di sperimentazione sui bambini e sugli adulti, le celle di segregazione e quelle per i prigionieri collaborazionisti, le torrette di guardia da cui non si fatica a immaginare un bieco cecchino affacciato.

 

 


E, spogliati di ogni dignità, brandelli di umanità : uniformi a righe, vasellame, occhiali, abiti maschili e femminili e scarpe, tantissimi paia di scarpe, ammucchiate dal pavimento al soffitto. Sono queste ultime nel silenzio a fare più impressione, milioni di scarpe ormai dismesse . Talvolta sformate, altre volte nuove, simili ai modelli adesso di moda, quasi a ricordarci che il passato non è tanto lontano dal presente.

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Non puoi visitare Birkenau e Auschwitz senza provare vergogna per un peccato originale  di cui fai parte anche tu, che non eri neppure nata in quei giorni, e che è stato quello di appartenere a una razza umana capace di cancellare sistematicamente l’umanità, per motivi futili e abietti .

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E passi in silenzio tra le baracche e gli edifici tenendo impresso nella tua mente tra le lacrime i visi dei milioni di persone che hai visitato sfilando nei corridoi pieni di foto:da un lato le donne l’altro gli uomini. Fotografie colte al momento dell’arrivo nei campi di sterminio, istantanee di giovinette graziose che sorridono ai propri carnefici , ritratti di uomini pensosi,  vecchi o giovani dall’aria sfrontata. Tutti ignari all’inizio del proprio destino, giunti carichi di masserizie,  che sarebbero state tolte loro immediatamente appena il treno si sarebbe fermato al chilometro zero,  perduto per sempre nei campi di Birkenau.

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E si esce dalla visita carichi di dolore, pieni di domande. Perchè sai che la storia non si è fermata a questo enorme errore, che l’essere umano non si è redento dopo la Shoah, che migliaia di sterminii sono stati commessi prima e dopo e che il tuo dovere di essere appartenente all’unica razza esistente, quella umana,  è testimoniare contro l’orrore, anche nel tuo piccolo mondo, anche solo nella tua cerchia.

Perchè nessuno esce da quei cancelli senza esserne cambiato per sempre e senza piangere di dolore e di vergogna per quello che fu, per quello che non avrebbe dovuto essere, per quello non deve accadere mai più.

(foto scattate ad agosto 2017 nei campi di Birkenau ed Auschwitz, vicino Cracovia)

Del (nuovo) giorno

25 Set

Ogni mattina
Cancelliamo i sogni
Con cautela costruiamo i discorsi
Le nostre vesti sono un nido di ferro
Ogni mattina
Salutiamo gli amici di ieri
Le notti si dilatano come fisarmoniche
– Suoni, rimpianti, baci perduti.
(Insignificanti
Enumerazioni
– Nulla, solo parole per gli altri
Ma dove finisce la solitudine?)

Manolis Anaghnostakis

E il mio maestro mi insegnò…

30 Mar

Un verso  di una famosa  canzone recita “E il mio maestro mi insegnò com’è difficile trovare l’alba all’imbrunire”

Come sempre avviene per le sue liriche, interpretare i versi di Battiato è opera incerta ed ermetica. Oppure ti capita che,  trascorrendo gli anni, tu dia un significato diverso a quelle parole. Questo mi è successo con “La cura”, quel finale “Perché sei un essere speciale, ed io avrò cura di te” nel tempo è passato a designare un amato, poi una figlia, fino a intuire che forse tratta dell’amore che un creatore può concepire verso le sue creature, amore tale da proteggerle e da averne cura, così che questo sentimento può essere si amore carnale ed anche filiale ma anche amore universale, senza confini, senza pretese di essere ricambiato. Almeno così a me sembra 🙂

Certo, la vita è un grande alchimista, ti trasforma, ti modella e ti fa trovare,  nella maturità, proprio in te l’oro nascosto che a 20 anni non sapevi di avere. Non è che tutti i giorni si passi il tempo a riflettere sui versi delle canzoni, ma ecco che all’improvviso ti arriva, sotto forma di quel verso, una ispirazione che ti dischiude una porta, una interpretazione nuova su te stessa.

E così, senza avere un solo maestro, ma tante Maestre e Maestri, ho trovato la luce dell’alba all’imbrunire. La calma, la riflessione, l’esser contenti del colore dell’alba, gioire per le piccole cose. Meditazione, reiki e consapevolezza, forgiati dal dolore e dalla sofferenza di un tempo, hanno fatto un piccolo miracolo alchemico. Per citare Jung e il suo Libro Rosso, dal nero al bianco, nigredo et albedo, al giallo e al rosso , citrinitas et rubedo.

E’ così che io penso di esser riuscita a trovare quel chiarore dell’anima che dischiude l’alba anche al crepuscolo. Io la chiamo serenità, e quello “spirto guerriero ch’entro mi rugge” , per dirla alla Foscolo, si rilassa e si distende. Come un cucciolo felice di essere al sole, senza pensare nè al passato nè al domani, ma sereno in un infinito oggi.

Quando eravamo ritals e macarunì, esperienze migratorie rimosse o dimenticate

23 Feb

La brava ed entusiasta collega Tiziana che dirige il giornalino scolastico del mio Istituto mi ha chiesto un articolo sulle migrazioni, e mentre lo scrivevo, mi è venuta in mente la figura di mio nonno, migrante nato in Brasile e tornato a Napoli, la mia città d’origine. Ve lo posto qui, trascritto, ma se volete dare un’occhiata al giornalino di scuola, vi lascio anche il link 🙂  E soprattutto mi viene da riflettere a quanto siano simili le nostre memorie storiche di migranti, confrontate con quelli che ogni giorno attraversano i confini e trovano muri…..

 

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Sono la nipote di un emigrante italiano. Mio nonno nacque in Brasile, a Manaus, città nella quale anni prima si erano tra- sferiti i suoi genitori che non trovarono lì né ricchezza né fama. Tornato a Napoli, sua città natale, negli anni ‘50 mio nonno diventò il presidente di una compagnia navale di emigrazione, la Colombo, che organizzava le rotte degli emigranti verso il nord e il sud America. Era molto premuroso e solidale con chi affrontava il grande viaggio verso l’ignoto: nelle sue memorie di emigrante restavano i ricordi del duro lavoro nelle pampas dal clima insalubre , i richiami continui e sgarbati del capomastro, le malattie, il vitto scadente, i pochi soldi per sbarcare il luna-rio, la nostalgia di casa.
Pagina del passato recente, l’emigrazione è stata un passo obbligato per molti italiani, non solo del Sud , ma anche di quelli del Nord, con un grande flusso di popolazioni frontaliere, specialmente provenienti dal Piemonte, dalla Liguria, dal Friuli e dal Lazio. Oggi le persone di origine italiana rappresentano il dieci per cento della popolazione francese, il 21 per cento di quella Argentina e circa il 5 per cento di quella statunitense.

Le cause della grande migrazione italiana erano costituite in parte da “push factors” ed in parte da “pull factors” Tra i primi, come fattori di respingimento annoveriamo sicuramente le  precarie  condizioni economiche in cui larga parte della popolazione versava, ma anche, specialmente per i giovani maschi, il fenomeno della coscrizione obbligatoria, cui cercavano di sottrarsi, che spesso obbligava a condur- re una vita clandestina e sovente sfociava nel brigantaggio.

Tra i “push factors”, fattori di attrazione, andavano considerati la speranza di arricchirsi e l’idea di diventare cittadini di un grande paese costituito completamente da immigranti. Nel periodo del fascismo, inoltre, molti tra gli immigrati erano antifascisti perseguitati dal regime o dissidenti che decisero di trasferirsi in America anziché essere perseguitati in una patria divenuta inospitale.

Anche per molti migranti proveniente della nostra cittadina di Tivoli la Francia è stata la destinazione più frequente.

L’emigrazione verso la Francia del Sud e centrale, sino ad arrivare alla capitale e, ancora più al nord industrializzato si concretizzò con un lusso in crescente aumento a partire dalla fine del 1800 sino alla seconda metà del ’90. In Francia gli italiani – specialmente quelli provenienti dall’alta Italia – sono andati a lavorare molto spesso come “sans papier”, operai clandestini nelle fabbriche o nelle miniere. La condizione di clandestino era spesso dettata dall’alto costo che era richiesto per avere tutti i documenti necessari per la regolarizzazione. In più, l’elevato tasso di analfabetismo e la scarsa pratica con uici e richieste burocratiche favorivano il clandestinismo lavorativo. Per lavorare regolarmente, occorreva una “carte de travaille”, che doveva essere approvata dal consolato italiano nelle città francesi di destinazione e successivamente inoltrata alla sottoprefettura territoriale competente. Per passare la frontiera, era sufficiente il regolare passaporto, ma senza la carta lavorativa era diicile ottenere un lavoro regolarmente retribuito. Molti lavoratori si recavano in Francia per lavorare come stagionali, attratti dalle paghe più alte di quelle praticate in Italia. Spesso lasciava- no una famiglia che doveva sobbarcarsi il lavoro dei campi al posto dei suoi mem- bri partiti in cerca di fortuna.

I francesi erano soliti chiamare gli italiani “macarunì” per la loro abitudine di man- giare i maccheroni, per controparte gli italiani chiamavano i francesi “pomiditè” storpiando il nome con cui si chiamano le patate in francese ovvero pommes de terre, pietanza di cui erano soliti cibarsi i francesi.

Gli immigrati italiani erano anche chiamati Rital (al plurale ritals), un termine dell’argot popolare francese che indica una persona italiana o di origini italiane, con connotazione peggiorativa e ingiuriosa. Le condizioni di vita erano spesso penose, al punto che era una diceria comune tra i francesi che gli italiani, venuti per costruire le ville altrui, fossero costretti ad occupare alloggi insalubri nelle bidonville o nei quartieri più degradati delle città.

La maggior parte non possedeva specializzazioni professionali e dunque poteva esercitare qualunque attività manuale (sterratori, scaricatori, manovali, lavoratori agricoli stagionali, metallurgici nei cantieri navali….). Tanti finirono per impiegarsi, regolarmente o no, nell’industria 

Ma tanti italiani emigravano verso le Americhe. Ellis Island è un isolotto situato alla foce del fiume Hudson, nei pressi del porto di New York City. E’ comune- mente ritenuto il simbolo del patrimonio culturale degli immigrati provenienti da tutti i paesi europei e diretti negli Stati Uniti. Dal 1892 ino al 1954 in quest’isola transitarono circa venti milioni di emi- granti, in cerca di libertà e di opportunità economiche. All’arrivo al centro di accoglienza, ciascun immigrato doveva esibire i documenti di viaggio con le informazioni della nave che li aveva condotti in America, mentre dei medici del servizio immigrazione visitavano i nuovi arriva- ti, contrassegnando con la schiena con un gessetto coloro che dovevano essere sottoposti ad esami più approfonditi America, mentre dei medici del servizio immigrazione visitavano i nuovi arriva-ti, contrassegnando con la schiena con un gessetto coloro che dovevano essere sottoposti ad esami più approfonditi. Chi superava il primo esame, veniva poi accompagnato nella sala dei Registri, in cui venivano registrati dati quali le generalità dell’immigrato, la destinazione, la disponibilità di denaro e le attitudini lavorati- ve, per essere successivamente sbarcato a Manhattan. Chi veniva sottoposto alla successiva visita e fosse giudicato non idoneo, veniva reimbarcato sulla stessa nave che lo aveva portato negli Stati Uniti, la quale aveva l’obbligo di riportare in patria gli “scartati”.

Negli Stati Uniti in cui l’abbondanza di terra poco costosa era un fattore allettante, gli italiani – chiamati fellas, termine che nel gergo significava“ ragazzi”, si distinguevano per svolgere principalmente lavori agricoli, anche se successivamente sono stati impiegati in lavori principalmente urbani. Gli italiani sono stati notati e apprezzati anche per la loro diligenza. Hanno lavorato come macellai, raccogli- tori di stracci, addetti alle pulizie della fogna e in tutti quei lavori duri, sporchi, pericolosi che gli autoctoni non desidera- vano. Anche i bambini immigrati hanno lavorato in dalla più tenera età, come del resto avveniva in Italia, spesso a scapito della loro educazione scolastica. Gli italiani emigrati in America erano apprezzati per il loro rifiuto di accettare la carità o di ricorrere alla prostituzione per soldi. Le condizioni di vita in cui gli italiani immigrati a New York vivevano erano spesso drammatiche e ai limiti dell’indigenza. Erano famosi per la loro sobrietà, ma venivano spesso osservati comportamenti tipici, come la sporcizia delle loro abitazioni e la tendenza a risparmiare su- gli alimenti in un tentativo disperato di accumulare soldi.

Partendo dall’esperienza di mio nonno emigrato, nella mia esperienza di mediatrice culturale ho confrontato e raccolto tante vicende simili, avvenimenti diventati storia d’Italia. Il nostro Paese ora è diventato terra di emigrazione, e tuttavia sembra aver dimenticato i racconti dei fellas e dei macarunì che partirono su fatiscenti bastimenti o attraversarono clandestinamente le frontiere in cerca di un futuro migliore.

Proprio come successe a mio nonno, nato in Brasile da immigrati italiani.

Siediti ai bordi dell’aurora

7 Feb

Oggi, tramite whatsapp, una persona cara mi ha inviato questa breve poesia come augurio di buona domenica.

L’autore è Swami Vivekananda, un mistico indiano vissuto nell’800, i cui versi sono ancora adesso densi di bellezza e di significato.

L’ho trovata bella e confortante, così ho pensato di condividerla con voi tutti, amici di blog.

Per augurarvi buona settimana e ritrovarci seduti, anche virtualmente, ai bordi dell’aurora.

“Siediti ai bordi dell’aurora,
per te sorgerà il Sole.
Siediti ai bordi della notte,
per te brilleranno le stelle.
Siediti ai bordi del torrente,
per te canterà l’usignolo.
Siediti ai bordi del silenzio,
Dio ti parlerà. ”

Swami Vivekananda

Praticate gentilezza a casaccio e atti di bellezza privi di senso: la via del cuore

17 Gen

” Copriti, che ti si vede il cuore”

Quante volte senza volerlo “copriamo” il nostro cuore? Innumerevoli, finendo per nascondere a noi e agli altri i nostri sentimenti, persino quelli che più potrebbero farci onore. In una società che è continuamente occupata a fare cose, a produrre, a dimostrare di essere “utile”, l’abbandonarsi al sentimento, alla comunicazione empatica sembra sempre più strano.

Spesso si finge di essere più “duri” di quello che si è anche per paura di essere a propria volta feriti. In questo modo si distorce la comunicazione con gli altri e si alimenta una spirale di reciproco sospetto e di ostilità, per non parlare della competizione, specialmente negli ambienti di lavoro.

Ascoltare invece il nostro bambino interiore porta senz’altro grandi benefici dapprima alla persona, portando alla luce sensazioni e bisogni esistenti nel nostro inconscio ma represse, e successivamente all'”altro da sè” con cui siamo in relazione: parenti, coniuge, figli, amici , conoscenti, colleghi, e via via così, allargando le cerchie di relazioni.

Un individuo più felice è in grado di mettersi in gioco avviando per primo una comunicazione empatica, in cui la compassione, intesa nel senso etimologico “cum patior”, soffro con, sia la chiave di volta di un reciproco riconoscimento della condizione umana e del senso di solidarietà e di rispetto tra le persone.

Alcuni piccoli passi sono rappresentati dalle pratiche del “caffè sospeso”, in vigore a Napoli e pian piano adottato in altre città, e dalla filosofia di vita racchiusa nello slogan ” Praticate gentilezza a casaccio e atti di bellezza privi di senso”, proveniente dagli Stati Uniti ed imitato già da qualche anno in tutto il mondo.

“In una gelida giornata invernale a San Francisco, una donna  arriva al casello del pedaggio per il ponte sulla baia. “Pago per me e per le sei auto dietro di me”, dice con un sorriso. Uno dopo l’altro, i successivi sei automobilisti che arrivano al casello, dollari in mano, si sentono dire: “Una signora lì davanti ha già pagato il biglietto per lei. Buona giornata”. La donna dell’auto aveva letto qualcosa su un biglietto attaccato ad un nastro adesivo al frigorifero di un amico: “Praticare gentilezza a casaccio e atti di bellezza priva di senso”. La frase risuonò profondamente in lei e la ricopiò. Ora la frase si sta diffondendo, su adesivi, sui muri, in fondo alle lettere e ai biglietti da visita, sulle pagine di facebook, sui blog, sugli articoli. Ma soprattutto nella vita reale.

A Portland, nell’Oregon, un uomo infila una moneta nel parchimetro di uno sconosciuto appena in tempo per non fargli prendere la multa. (A Portland c’è un parchimetro per ogni posto auto) A Patterson, nel NewJersey, una dozzina di persone con secchi e stracci e bulbi di tulipano calano su una casa cadente e la ripuliscono da cima a fondo mentre i fragili e anziani proprietari stanno a guardare, sbalorditi e sorridenti. A Chicago un adolescente è intento a spalare un vialetto d’accesso quando lo coglie l’impulso: che cavolo, non mi vede nessuno, pensa, e spala anche il vialetto del vicino. Praticare gentilezza a casaccio e atti di bellezza priva di senso: un’anarchia positiva, un disordine, un disturbo piacevole.

Gli atti di bellezza privi di senso si diffondono: a Roma un uomo anziano pianta giunchiglie, oleandri e altre piante verdi lungo la strada, aiutato da un giovane extracomunitario. A Seattle un uomo si autonomina unico addetto al servizio d’igiene e vaga per le colline di cemento raccogliendo spazzatura in un carrello da supermercato.” (cito dal blog di Anne Herbert)

Dicono che non si possa sorridere senza rallegrarsi un po’; allo stesso modo non si può compiere una gentilezza a casaccio senza sentirsi come se i propri guai fossero più leggeri, se non altro perché il mondo è diventato un luogo leggermente migliore. E l’ecologia mentale spetta proprio a ciascuno di noi, schiudendo il cuore agli altri e faendo sorridere il bambino interiore che è sempre dentro di noi.

Buona settimana dal vostro Angelo Harielle 😀

Unioni civili e pari diritto all’amore: l’amore conta

7 Giu

10 anni fa per la prima volta visitai Madrid, una delle mie città preferite da allora in poi.

Era da poco stato eletto Zapatero e in città si respirava un’aria di speranza, di fiducia nel cambiamento.

Da pochi giorni era stata varata la legge sulle unioni civili.

L’hotel assegnatomi dall’agenzia turistica era a pochi passi dalla Gran Via, l’arteria principale che attraversa tutto il centro, e il quartiere in cui si trovava era il Checua, che scoprii essere noto come il quartiere gay.

Camminando per le strade con mia figlia, all’epoca scolaretta delle scuole medie,  incontravamo spesso coppie dello stesso sesso che si tenevano per mano, ridevano abbracciate, sorridevano spensierate senza dover più nascondere al mondo i loro sentimenti.

Certo, disseminati per le stradine c’erano anche locali che annunciavano strip tease e peep show maschili, quelli non li abbiamo visitati quindi non saprei dirvi, mentre rimasi colpita da come mia figlia assorbisse con naturalezza e tranquillità scene normali di esternazione dei sentimenti cui non eravamo abituate nel nostro Paese.

Anni dopo, il migliore amico di mia figlia, un quasi fratello con cui è cresciuta insieme e con cui ha condiviso tutti gli ordini e gradi di scuole fino al liceo – solo all’università hanno seguito scelte diverse – ha dichiarato il suo orientamento sessuale e ha presentato a familiari e parenti il suo fidanzato. Un bravo ragazzo, studente come lui e sempre sorridente, dolce e affettuoso.

Anche in questo caso, ogni volta che li vedo insieme (peraltro escono spesso con mia figlia e il suo ragazzo)  ritrovo quella spontaneità e naturalezza incontrata anni prima a Madrid. In quella città sono tornata più volte e l’ho vista abituarsi alle unioni civili, ora nemmeno più mostrate così in pubblico, perchè come assorbite dalla coscienza collettiva, sdoganate, diremmo noi italiani che abbiamo un talento nell’inventare neologismi.

Ho anche  visto la Spagna piegarsi e poi lentamente risollevarsi in seguito all’attentato di Atocha, alla crisi economica, ai cambiamenti politici conseguenti, ma questo è un altro argomento di cui magari parlerò in un altro post.

La conclusione del mio intervento è semplice, lineare come un sillogismo dettato dal rasoio di Occam. Se più o meno in tutti gli Stati dell’Unione Europea esistono leggi che tutelano le unioni tra coppie gay, perchè nel nostro il varo di una normativa similare a livello nazionale stenta a decollare? Esistono attualmente solo delibere di singoli comuni, su registri civili, tra cui Roma.

Si tratterebbe di un passo avanti di significativa civiltà e di raggiungimento di pari opportunità, che il Paese che  un tempo menava vanto di essere culla del diritto romano e dell’innovazione giuridica coraggiosa dovrebbe ormai compiere.

Lasciando a tutti la libertà di scegliere, di essere, di poter essere se stessi. Senza polemiche, ostentazioni, finzioni, prevaricazioni.

Pensando solo che esiste il diritto all’amore.

Perché, per citare il Liga, l’amore conta . Ed è universale, trasversale, sempre uguale, per tutti.

Citazione

Giorni d’autunno

30 Nov

Brevi giorni d’autunno
liberi da pensieri,
soli che muoiono
versando prodighi raggi
sulla terra tremante di pioggia.
Precoci fiori d’arancio
vacillano sottili nel primo freddo
nel silenzio d’incanto
di una mattina d’autunno.
Serenità o sofferenza in pari misura vibrano
in connessione con la natura intera.
E’ il peso del mondo
Che in tutte le cose
invoca amore
Harielle  © 2014

Centratura

4 Ott

Tra lavoro a scuola e corsi di aggiornamento al pomeriggio,

corsi di yoga e cristalloterapia nel tempo libero.

riesco a stento a mantenere aggiornato il mio blog.

Mi piace leggervi, però, e vi posto un caro saluto.

L’essenziale è essere centrati su se stessi e in sintonia con il mondo intero.

Namastè dal vostro Angelo

 

“… non c‘è bisogno di lasciare la casa per vedere meglio.

Non c’è bisogno di sbirciare dalla finestra.

Vivi invece al centro del tuo essere.

Per fare bisogna essere…”

(Lao-Tse)

 

K. e lo yoga della risata

7 Mag

Mia sorella Katerina è leader dello yoga della risata e qualche tempo fa mi ha voluto “trascinare” in una sessione di questa nuova ed emergente disciplina.

Lo Yoga della Risata (Hasyayoga), è una forma di yoga che fa uso della risata autoindotta.

La risata è un fenomeno naturale, e non necessariamente implica la comicità o la commedia. Da un’idea del medico indiano di Mumbay, il dottor Madan Kataria, ha avuto origine il primo Club della Risata, in un parco pubblico, il 13 marzo 1995, con un minuscolo gruppo di membri attivi. Oggi si contano oltre 6000 Club in 60 paesi circa che fanno di questa forma di yoga un fenomeno di portata mondiale.

Le sessioni di Yoga della Risata iniziano con semplici esercizi di riscaldamento, che comprendono stretching, vocalizzazioni, battito delle mani e movimenti del corpo. Tutto ciò aiuta a far cadere le inibizioni e a sviluppare sentimenti di giocosità. Gli esercizi di respirazione si usano per preparare i polmoni alla risata; sono poi seguiti da una serie di “esercizi di risate”, che combinano elementi di teatro (azione sostenuta da tecniche di visualizzazione) con la giocosità.

Questi esercizi, quando si combinano con le dinamiche di gruppo, portano a una risata incondizionata, prolungata e sostenuta. Gli esercizi di risate sono intervallati dagli esercizi di respirazione. Venti minuti di risate sono sufficienti per sviluppare benefici fisiologici importanti.Aumento delle endorfine in circolazione, stabilizzazione della pressione, senso di serenità generale.

I risultati su di me? Beh, vi dico che all’inizio sarebbe stato più facile chiedermi di spogliarmi in pubblico. Ridere davanti a sconosciuti e all’inizio senza motivo è peggio che togliersi un indumento, siamo più abituati a questo che alla risata. Paura del ridicolo, paura di relazionarsi ci ostacolano nel liberarci dalle emozioni…ma poi…

Poi, contagiata dalle ondate di risate collettive, mi sono lasciata andare. Non senza ammirare orgogliosamente la bravura della mia “sorellina” e dell’allegria contagiosa che è riuscita a creare intorno a sè. E con gioia mi sono abbandonata ad una risata allegra, gioiosa, spensierata..hahaha hohoho, come si dice nella specialità indiana 🙂

 

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